Al Presidente del Senato della Repubblica
Sen. Maria Elisabetta Alberti Casellati
Al Presidente della Camera dei Deputati
On. Roberto Fico
Carissima Presidente, carissimo Presidente,
la lettura dell’Agenzia Ansa del 28 giugno 2018, ore 14,29: “I vitalizi non sono diritti acquisiti, ma privilegi rubati. I privilegi rubati non possono esistere nel nostro governo. Lo scrive su Twitter il Ministro del Lavoro e capo politico del M5S, Luigi Di Maio”, ha prodotto in me molto sconcerto e tanta amarezza. Per giorni ho sperato ingenuamente che ci fosse qualche commento di autorevoli intellettuali o esponenti politici che cercassero di difendere l’impegno politico, l’attività parlamentare svolta in Italia da decine di migliaia di donne e uomini. Perché questa incontenibile voglia di delegittimare che porta soltanto alla perdita dell’identità nazionale?
Mi sono messo a cercare tra libri, documenti, resoconti dei dibattiti parlamentari alla Costituente – in particolare sugli articoli, 49, 67, 68, 69. E mi sono ritrovato tra le mani un libro pubblicato quasi cinquant’anni fa che sin dal titolo mi ha riportato mestamente ai nostri giorni: Il ventennio della pacchia. È un libro concepito per screditare la storia della Repubblica, per vilipendere uomini e donne protagonisti della storia democratica del nostro paese. È un libro da non leggere se non fosse un documento utile per ricostruire la storia dell’avversione al Parlamento, ai partiti, ai sindacati negli anni della Repubblica, dal 1946 ad oggi. Nell’ormai lontano 1971, i due autori di questo libro, edito dalla casa editrice Il Borghese, presero di mira i “privilegi” ottenuti da alcuni parlamentari italiani in virtù dei loro trascorsi politici. Con puntiglio giornalistico davano le cifre delle pensioni percepite da chi aveva trascorso in galera o al confino una parte della propria vita in seguito a condanne inflitte dal Tribunale speciale fascista o dopo le inappellabili disposizioni dei prefetti. Tra i “privilegiati” citavano Luigi Longo, Maria Baroncini, Umberto Terracini e Mauro Scoccimarro. Nomi tra i tanti, ma contro questi quattro dirigenti politici si puntava l’indice per denunciare prebende e favori goduti sulle spalle degli italiani. Longo, era allora segretario del Partito comunista italiano e sui suoi trascorsi di dirigente antifascista e di capo della Resistenza non occorre che mi soffermi. Chi è stata Maria Baroncini lo sapremo meglio leggendo le sue memorie, recuperate nei mesi scorsi nell’archivio di famiglia. Verranno pubblicate tra qualche settimana e qui mi basta dire che fu privata della libertà per undici anni a causa della sua avversione al regime fascista. Terracini – voglio ricordarlo – aveva subito una condanna a 22 anni, 9 mesi e 5 giorni di reclusione (più una multa di 11.200 lire, l’interdizione perpetua dai pubblici uffici e tre anni di vigilanza speciale) nel processo che condannò Gramsci a più di vent’anni di prigione. Ebbe la fortuna di scontare qualche anno in meno: tornò in libertà dopo 18 anni, lasciando l’isola di Ventotene nell’agosto del 1943, un mese dopo la caduta di Mussolini. Mauro Scoccimarro ne aveva patiti altrettanti; anche lui come Longo, Baroncini e Terracini, riacquistò la libertà sotto il Governo Badoglio. Divenne ministro delle Finanze e negli archivi del Partito comunista italiano si conserva una sua lettera in cui – da ministro – chiede un anticipo sullo stipendio: gli occorrevano degli occhiali che sostituissero quelli ripetutamente riparati e ormai inservibili che utilizzava da troppi anni. E il partito provvide. Quali accuse si muovevano a queste persone cinquant’anni addietro? Di aver ottenuto un privilegio, cioè una pensione che teneva conto degli anni trascorsi in stato di prigionia. Mi sono chiesto come si è regolata la Repubblica Sudafricana nel caso di Nelson Mandela, che ha scontato 27 anni di carcere. In ogni caso, non ho dubbi che la Repubblica italiana abbia fatto bene a risarcire i perseguitati politici che furono peraltro protagonisti della rinascita del paese e della costruzione della democrazia.
Non intendo replicare alla campagna contro i “privilegi” dei parlamentari e fare conti su pensioni e vitalizi. Né tantomeno voglio giustificare la pensione che percepì il senatore Terracini, Presidente dell’Assemblea costituente e firmatario della Costituzione italiana promulgata settant’anni fa. Mi preme difendere le donne e gli uomini che hanno fatto la storia della Repubblica. Mi sono convinto che occorre reagire energicamente, mentre le risposte che si danno a chi vilipende le istituzioni e denigra la storia della Repubblica mi paiono del tutto inadeguate. Sono dell’idea che se non siamo stati in grado di onorare degnamente i padri e le madri della Repubblica abbiamo il dovere di rimediare. Quando si riduce la storia repubblicana a malcostume, malaffare e soprusi perpetrati dalle sue classi dirigenti abbiamo il dovere di reagire. Io di certo mi propongo di farlo fermamente.
Se la colpa è dell’assenza di un Pantheon condiviso, facciamolo questo monumento dedicato alla storia della Repubblica. Non dico un sacrario in pietra o in metallo, ma un moderno complesso monumentale costruito con i mezzi più moderni, tecnologicamente più avanzati, capace di raccontare la storia del nostro paese, pensando alle giovani generazioni, a chi la storia d’Italia non la conosce e a chi ha voglia di approfondirla. Raccontiamola questa storia, così ricca, avvincente e tragica attraverso un museo multimediale che ospiti i documenti, i filmati, le immagini, che ci restituisca i volti degli uomini e delle donne che hanno fatto la storia della Repubblica. Sarebbe un efficace antidoto contro le fandonie e i tentativi persistenti di ridurre l’impegno politico all’immagine falsa della “casta” che si è appropriata di potere e privilegi.
In occasione del centocinquantesimo dell’Unità abbiamo assistito a un dibattito pubblico sulla storia italiana che ha coinvolto milioni di persone nelle scuole, nelle piazze, nei teatri, nelle università. È stato anche merito del Presidente Giorgio Napolitano se si è giunti a una mobilitazione di massa che ci ha aiutato a ripensare la nostra storia e la nostra identità. Nel 2011 ho provato a fare la mia parte, prodigandomi per la realizzazione a Roma di una mostra sulla storia del Pci – di cui ricorreva il novantesimo anniversario della fondazione – che è stata visitata da decine di migliaia di giovani e il cui successo ci ha spinto ad allestirla anche a Livorno, Genova, Milano, Bologna, senza avere la possibilità di esaudire le richieste venute da numerose altre città. Non volevamo celebrare un partito; abbiamo voluto soltanto raccontare un pezzo di storia del paese, ben sapendo che la storia di ogni partito, di ogni singola donna e singolo uomo, che abbiano concorso alla costruzione della democrazia merita di essere raccontata degnamente.
Come possiamo non sentire il dovere di contrapporre alle menzogne sulla “casta” la storia dei partiti di massa che hanno costruito la democrazia di questo paese, pezzo per pezzo, fin dal suo architrave costituzionale? Nel Parlamento, nei consigli provinciali e nei consigli comunali, nelle sezioni, nelle piazze di tutta Italia i partiti di massa hanno costruito e consolidato la democrazia giorno dopo giorno. Hanno reso dirigenti i contadini, gli operai, gli impiegati, i ferrovieri. Dal 1945 in avanti non più soltanto i grandi proprietari terrieri o gli industriali hanno avuto la possibilità di dedicarsi alle sorti del paese. E l’impegno politico è stato concepito da un incalcolabile numero di persone come missione, sacrificio degli affetti, rinuncia alla vita normale, abnegazione spesso totale.
Per i dirigenti politici, la politica è stata anche un’immane fatica. Andrebbero conteggiati – e so bene che sarebbe un calcolo anche macabro – i dirigenti politici e sindacali schiantati da un malore mentre parlavano in pubblici comizi o mentre adempivano al loro dovere. È il caso di Giuseppe Di Vittorio, morto a Lecco dopo avere inaugurato una nuova sede della Camera del lavoro nel novembre del 1957 o di Enrico Berlinguer che riuscì a concludere in fin di vita il suo comizio a Padova nel giugno del 1984.
C’è da raccontare la storia tragica di questo paese e i sacrifici della sua classe dirigente. Altro che casta. Quanti sono i dirigenti politici che hanno perduto o rischiato la vita? A quanti politici non è bastata la scorta? Quanti hanno vissuto sotto l’incubo di agguati? Quanti hanno dovuto difendersi senza mezzi adeguati? Girolamo Li Causi, anche lui per lunghi anni prigioniero di Mussolini, da deputato siciliano e da segretario regionale del Pci aveva rischiato la vita in più occasioni, permanentemente vittima di minacce da parte della mafia. Il suo partito – pur a corto di strumenti idonei – doveva provvedere anche alla sua protezione. L’eredità di Li Causi fu raccolta da Pio La Torre ucciso in un agguato mafioso nell’aprile del 1982. Accanto ai giudici che hanno perso la vita lottando contro la mafia, vanno ricordati i dirigenti politici e sindacali che hanno subito la stessa sorte. Va onorata la memoria di Pier Santi Mattarella e quella di molte centinaia di dirigenti sindacali e di partito uccisi prima e dopo la strage di Portella della Ginestra. Abbiamo celebrato Aldo Moro nel centenario della sua nascita e lo stiamo onorando nel quarantennale della sua morte. Ma la storia tragica della Repubblica la si può intendere appieno soltanto ricordando accanto a lui le centinaia di vittime del terrorismo: poliziotti, carabinieri, giudici, docenti universitari, giornalisti, dirigenti sindacali e politici. Penso che le giovani generazioni debbano sapere per quali ideali sono morti Guido Rossa, Roberto Ruffilli, Ezio Tarantelli.
Nel giugno del 1945, un anno prima che nascesse la Repubblica, il Parlamento italiano sentì il dovere di ricordare Giovanni Amendola, Antonio Gramsci e Giacomo Matteotti, i tre deputati vittime della persecuzione fascista: un liberale, un comunista, un socialista. A loro dedicò quei tre busti posti nel corridoio di Montecitorio, uno dei pochi luoghi destinati a ricordare i padri dell’Italia unita. C’erano stati altri deputati decaduti con le leggi eccezionali fasciste del novembre del 1926 che non videro l’Italia liberata dalla tirannide. Bruno Buozzi era stato ammazzato alla vigilia della liberazione di Roma dai tedeschi in ritirata. Filippo Turati era morto esule in Francia nel 1932. Come lui, il suo compagno di lotte Claudio Treves. Nel 1945, dopo la Liberazione, l’Italia aveva voglia di guardare avanti. La memoria era fresca. Eppure non si poteva iniziare senza ricordare il sacrificio dei dirigenti politici che avevano combattuto per una nuova Italia. Non si poteva cominciare senza ricordare Carlo e Nello Rosselli, Giame Pintor, Eugenio Curiel – che Berlinguer volle citare nel suo ultimo comizio a Padova – e le migliaia di combattenti (studenti, operai, intellettuali, staffette) che diedero la vita nella speranza di vedere nascere un Paese democratico e finalmente libero.
Con l’elezione dell’Assemblea Costituente, il ritorno alla vita politica non fu la restaurazione del vecchio ordine liberale. Per la prima volta nell’aula di Montecitorio trovarono posto le donne e tantissimi giovani. Accanto ai vecchi antifascisti, i lavori della costituente furono animati da giovanissimi deputati, poco più che ventenni. Giuseppe Dossetti, Aldo Moro e Renzo Laconi dialogarono con De Gasperi, Togliatti, Nenni che avevano alle spalle vent’anni di traversie. Intanto, i partiti di massa e i sindacati formavano le nuove classi dirigenti che avrebbero animato la vita politica nei decenni successivi. È una storia che non si può proseguire cancellando la memoria e accettando una ricostruzione risibile e offensiva.
La mia proposta non vuole essere una provocazione. Ritengo che una mostra permanente sulla storia della Repubblica sia l’unico rimedio alle sciocchezze che rischiano di dar vita a un nuovo senso comune figlio della volgarità e dell’ignoranza. Ritengo che dobbiamo impedire il dilagare di questa voglia di colpire il Parlamento e di delegittimare la politica. Di fronte a ciò non si può rimanere silenziosi!
Mi scuso molto per il tempo che ho sottratto al vostro alto impegno istituzionale.
Con vive cordialità
Sen. Ugo Sposetti
Roma, 19 luglio 2018